Questo libro delinea l’inizio di un viaggio, e colui che lo intra-prende deve prepararsi a un pellegrinaggio che lo condurrà, di tappa in tappa, fino al punto più profondo di Sé, lì dove la parola umana non sa dire nulla (ma «la Divinità è un nulla» dice Silesius), se non per pallide immagini, timide icone di una realtà eternamente presente ma occulta a chi non abbia intrapreso con serietà il cammino. Strannik in russo significa “pellegrino”. E Dio deve amare i pellegrini, se a Tobia mandò angeli a guidarlo: non è stato forse l’essersi fatto errante a condurre l’anonimo pellegrino russo a divenire presenza vivente del divino, attraverso i villaggi e le steppe dell’immenso paese? È quindi un pellegrinaggio che padre Schnöller delinea con la chiarezza che gli deriva dall’essere egli stesso uno strannik assai avanzato nella “via del ritorno”, capace perciò di guidare a sua volta altri viandanti. Il paesaggio delineato, da Occidente a Oriente, è ampio e affascinante, a rappresentare l’identica aspirazione dell’uomo al bene, al trascendente. Uno strano viaggio, uno strano pellegrinaggio: seduti al mattino presto o alla sera su un cuscino o uno sgabello, con la schiena eretta, immobili ai quattro punti cardinali, a tentare di disincantarci da quell’io in cui albergano tutti i desideri, le illusioni e le infinite effimere richieste, per riscoprire il Sé silenzioso dove, come in un lago che rispecchia la luna nella notte, ogni domanda diventa muta, e solo la silenziosa chiarità delle acque narra, a chi sa ascoltare, la magnifica e terribile storia del mondo (Gianpietro Sono-Fazion).